A cura di Dott.ssa Elena Ciampi – Psicologa clinica e Psicoterapeuta
L’incidenza dei disturbi specifici dell’apprendimento tra gli alunni delle nostre scuole si attesta intorno al 5%: ciò significa che le classi di 20 alunni sono abitate mediamente da almeno un bambino o bambina che si trova ad affrontare il proprio percorso scolastico con una difficoltà specifica in lettura, scrittura e/o calcolo. Se si allarga la prospettiva guardando a quanti fra gli alunni manifestano difficoltà di apprendimento, anche non specifiche, le statiche mostrano che ne possiamo contare mediamente 4 per ogni classe. Questi dati ci aiutano a considerare la classe come un luogo nel quale le modalità di apprendimento sono molteplici e seguono traiettorie differenti per ciascun alunno. Nel caso dei Disturbi Specifici in particolare queste differenti traiettorie non sono scelte dell’alunno nè si configurano come stili o attitudini personali, ma sono neurobiologicamente determinate (ovvero sono presenti fin dalla nascita e per tutto l’arco di vita).
Di fronte a tale situazione è importante ripensare dunque il concetto di intelligenza: renderlo plurale e non monolitico; gli studi di H. Gardner mostrano l’esistenza di diversi tipi di intelligenze che si completano tra loro ed è proprio la capacità di usare l’uno o l’altro dominio di intelligenza a seconda del compito che concorre a migliorare l’apprendimento. D. Goleman individua poi un tipo particolare di intelligenza, l’intelligenza emotiva, e la definisce come la capacità di comprendere e regolare le proprie emozioni al fine di raggiungere un risultato atteso. Tale intelligenza viene particolarmente sollecitata in ambito scolastico dove ai bambini è richiesto di portare a termine un determinato compito affrontando e regolando anche emozioni spiacevoli, come ad esempio la frustrazione.
Le neuroscienze, in tempi più recenti, hanno studiato il rapporto tra apprendimento ed emozioni e hanno mostrato e dimostrato che esiste una stretta connessione tra ciò che si sente e ciò che si pensa. Ad ogni attività cognitiva corrisponde infatti un tracciato emozionale: la nostra mente nel momento stesso in cui apprende, sente anche.
Se un alunno impara in un ambiente (scolastico, famigliare, ecc…) caldo, colorato da emozioni piacevoli, la sua mente, mentre apprende, sentirà emozioni piacevoli e assocerà quelle emozioni a quanto ha imparato. Quell’alunno dunque, ogni volta dovrà recuperare il contenuto di quanto imparato, sentirà anche le emozioni positive ad esso associate. Lo stesso meccanismo si attiva anche quando un alunno si trova ad imparare in un ambiente in cui sperimenta paura e angoscia. Imparare sperimentando paura e angoscia può provocare un allontanamento dall’apprendimento perché quanto appreso attiva e fa sentire emozioni spiacevoli. Il bambino che impara con emozioni spiacevoli, probabilmente si distaccherà dall’imparare ancora perché si proteggerà e si allontanerà da ciò che gli ha provocato dolore.
È evidente, dunque, che sia importante pensare all’apprendimento come connesso alle emozioni e che tenere distinti questi due aspetti restituisca una visione parziale, se non dannosa, di come i bambini e le bambine imparano.
Se quanto messo a fuoco finora è vero per tutti gli alunni, diventa ancor più prezioso per i bambini con DSA: la letteratura infatti è ricca già da diverso tempo di studi che mettono in evidenza come l’apprendimento in alunni con diagnosi di disturbo specifico sia spesso correlato a emozioni di paura e ansia proprio a causa della presenza stessa del disturbo. La prestazione scolastica, infatti, spesso diventa di difficile raggiungimento per questi alunni, sopratutto quando il DSA non è prontamente individuato e/o quando le misure compensative sono inefficaci. Di fronte all’insuccesso lo studente prova sfiducia, si valuterà (anzi, svaluterà) non capace di raggiungere gli obiettivi posti e cercherà dunque di opporsi o fuggire dalla situazione di apprendimento, origine di emozioni spiacevoli. Questo rende comprensibile come mai i bambini con disturbo specifico dell’apprendimento abbiano spesso una scarsa fiducia nelle proprie competenze scolastiche (autoefficacia scolastica), provino più ansia dei loro coetanei senza DSA e tendano a persistere poco nel raggiungimento degli obiettivi. Questi alunni vivono spesso quella condizione definita impotenza appresa: l’insuccesso scolastico alimenta la convinzione di non essere sufficientemente capaci (o intelligenti) che a sua volta espone all’insuccesso e così via.
Se è vero che le emozioni sono connesse all’apprendere e che spesso questo si trasforma un dannoso volano, è anche vero che coltivando le emozioni piacevoli dell’apprendere e aiutando a regolare e vivere quelle spiacevoli si può invertire la tendenza, innescando un circolo virtuoso. Quando un alunno deluso e scoraggiato da se stesso viene rassicurato autenticamente dall’adulto, con più probabilità ripartirà con fiducia e motivazione. La rassicurazione passa attraverso “interruttori” spesso non verbali che placano il sistema di allerta dei bambini. Questi interruttori sono semplici (ma non banali) e sono, ad esempio: il sorriso, il tono della voce, il contatto fisico e lo sguardo. Come scrive Lucangeli: “il tocco, lo sguardo, il sorriso, la voce: sono tutti elementi che incoraggiano lo studente quando si trova in uno stato di fatica perché lo fanno sentire accompagnato da un alleato che lo aiuta e lo sostiene nel risolvere la sua difficoltà.”
Abbiamo messo in luce come negli studenti con DSA non sia solo l’ambiente più o meno emotivamente caldo a favorire o sfavorire l’apprendimento, ma che la presenza stessa del disturbo specifico si configuri già di per sé un elemento di rischio. Ecco perché è importante aiutare questi bambini a sviluppare la loro capacità di regolare le emozioni spiacevoli (intelligenza emotiva) per evitare che queste impattino irrimediabilmente sull’imparare. Per fare ciò è fondamentale rielaborare con questi bambini il tema dell’errore. Frequentemente, infatti, l’errore viene visto e vissuto come un incidente da evitare, un danno da schivare e, ancora più nocivamente, una colpa. L’errore però è parte integrante del processo di apprendimento ed è importante che i bambini familiarizzino con questo aspetto. Non è un incidente pericoloso, ma un segnale che mostra quale strada sta percorrendo l’apprendimento di quell’alunno. Non è da schivare perché “è la chiave di accesso alla comprensione del percorso cognitivo di un bambino” (Lucangeli). L’errore va sì segnalato, ma non come elemento penalizzante, bensì come strumento di comprensione. Il bambino che impara dai suoi errori ci si approccia con la stessa attitudine dello scienziato durante un esperimento, ci si avvicina per capirli, li studia bene per modificare con successo il processo in corso. Il bambino che vive con paura i suoi errori li rifuggirà perché dannosi per il suo benessere e perderà l’occasione di imparare, con il rischio di sentirsi sempre più inadeguato e di addossarsi la colpa del mancato successo. Non demonizzare l’errore dunque è il primo passo per renderlo alleato dei bambini e per evitare che la paura comprometta il percorso di apprendimento.
Tutto quanto osservato finora esprime l’importanza del prendersi cura delle emozioni di tutti i bambini che apprendono, ma ancor più dei bambini con DSA. Aiutare i bambini nel riconoscere, nominarle e pensarle come parte integrante dell’apprendimento serve per imparare meglio e sentirsi meglio. Di tutte le emozioni è importante prendersi cura, di quelle piacevoli e di quelle spiacevoli perché tutte influenzano i processi di apprendimento. Non si tratta dunque di pensare all’apprendimento come ad un luogo privo di emozioni spiacevoli, ma anzi come ad un teatro nel quale ogni emozione gioca il suo ruolo sostenendo la parte del vero protagonista: il bambino, la bambina che apprende.