
Patrizia del Santo – Logopedista, esperta di apprendimento delle abilità linguistiche
Molto spesso chi opera nella scuola o nella clinica dei Disturbi dell’Apprendimento si trova a dover affrontare un atteggiamento di scetticismo quando non di aperto negazionismo, verso l’oggettività e la scientificità delle diagnosi di DSA (Disturbo Specifico di Apprendimento) o a dover controbattere alle perplessità sulla consistenza apparentemente esagerata di questo fenomeno.
Come operatori che da anni si occupano del problema, ci piacerebbe dare un piccolo contributo di riflessione sul senso delle diagnosi e delle certificazioni a scuola, che possa servire a fare maggiore chiarezza per tutti gli “attori” del sistema, genitori, insegnanti e clinici.
Che cosa sono e quanti sono i Disturbi Specifici di Apprendimento?
La ricerca sui Disturbi Specifici di Apprendimento, tra cui la più conosciuta è la Dislessia, ha ormai una storia decennale, se non secolare: è una storia in continua evoluzione, come è giusto che sia quando la scienza non vuole essere dogmatica, ma aperta al dubbio, alla novità, alla ridiscussione di ogni certezza. In Italia, la comunità scientifica che si occupa di questo tema ha cercato di trovare un accordo sui dati condivisi delle diverse ricerche dal 2007, con la prima Consensus Conference, al 2011, con le Raccomandazioni che ne sono scaturite: si è così potuto fare il punto su ciò che si conosceva, fino a quel momento, sull’eziologia, sulle modalità di manifestazione e sulla consistenza del fenomeno, per poter dare indicazioni condivise sulla correttezza dei percorsi diagnostici e riabilitativi da attuare. Da allora la ricerca non si è fermata e nuovi elementi di conoscenza si sono aggiunti, ma i principi fondamentali restano quelli allora delineati.
I Disturbi Specifici di Apprendimento hanno carattere neurobiologico, cioè sono causati da disfunzioni neurobiologiche che interferiscono con i normali processi di acquisizione della lettura, della scrittura e del calcolo: questo dato spiega alcune loro caratteristiche che sono facilmente osservabili, la loro familiarità (anche se le modalità di trasmissione genetica dei disturbi sono ancora tutte da scoprire) e il loro perdurare lungo tutta la vita. I fattori biologici dei DSA però, interagiscono positivamente e negativamente anche con i fattori ambientali, quali l’ambiente familiare, le modalità di insegnamento adottate dalla scuola, il contesto sociale: questa interazione tra i due tipi di fattori porta a una grande variabilità dei profili di apprendimento, cioè delle caratteristiche con cui si presentano i singoli soggetti portatori di DSA, che spesso disorienta insegnanti e genitori, ma spiega anche l’importanza degli interventi di potenziamento e di riabilitazione che possono migliorare anche notevolmente gli esiti di queste condizioni. Infine l’espressività dei Disturbi, cioè il loro manifestarsi più o meno intensamente, dipende anche dalla complessità ortografica della lingua scritta: lingue più opache come l’inglese richiedono processi di transcodifica e conseguentemente percorsi didattici diversi, rispetto a lingue trasparenti come l’italiano e questo spiega la diversa incidenza della dislessia in queste due comunità linguistiche. In sintesi, per semplificare, si potrebbe dire che i DSA hanno una base biologica genetica che produce una specie di “predisposizione” per le difficoltà di apprendimento, che possono manifestarsi più o meno intensamente a seconda della presenza di altri fattori che possono concorrere a determinarli.
Un’altra caratteristica dei DSA, che li rende tuttora difficili da riconoscere ed accettare, soprattutto nel mondo della scuola, è la loro specificità, cioè il fatto che essi interessino un dominio specifico di abilità in modo significativo, ma circoscritto, lasciando intatto il funzionamento intellettivo generale. Sembra a volte incredibile per genitori e insegnanti, che bambini capaci di afferrare al volo concetti complessi, di imparare oralmente con grande rapidità, di essere intuitivi e creativi in moltissimi contesti, possano non essere in grado di apprendere e soprattutto automatizzare i meccanismi di base della lettura, della scrittura e del calcolo: eppure proprio in questo sta la specificità del disturbo! Per questo motivo è anche difficile, ma non impossibile, prevedere l’insorgenza dei disturbi in fase prescolare: l’unico fattore predittivo facilmente evidenziabile può essere un disturbo o ritardo di acquisizione del linguaggio, ma a volte le difficoltà emergono “a ciel sereno” solo quando i bambini vengono esposti all’apprendimento della lingua scritta o del sistema dei numeri.
Infine ricordiamo, tra i tanti, un altro elemento importante su cui c’è un sostanziale accordo nel mondo scientifico, costituito dalla frequenza di incidenza dei DSA nel loro complesso, che per la lingua italiana oscilla tra il 2,5 e il 3,5 per cento, in età evolutiva, dato confermato da una ricerca epidemiologica svolta su tutto il territorio nazionale.
È vero che ci sono troppe diagnosi di DSA?
Dall’entrata in vigore, nel 2010 della legge sui DSA, è cresciuto, soprattutto sul web, un movimento di opinione che contesta un numero eccessivo, abnorme, di diagnosi di DSA e su questa base nega la veridicità e la serietà delle diagnosi stesse. In realtà queste posizioni sono senza fondamento, vere e proprie fake news, i dati ufficiali, provenienti dal MIUR, tracciano un quadro ben diverso.
Nell’anno scolastico 2010/11 le diagnosi di DSA nella scuola dell’obbligo ammontavano allo 0,7% del totale degli studenti. Nell’anno scolastico 2014/15 gli studenti certificati per DSA sono stati 186.803 pari al 2,1% della popolazione scolastica: ovviamente l’effetto della legge, il piano diffuso di formazione degli insegnanti, la costituzione delle apposite commissioni nei servizi pubblici hanno dato una forte spinta al riconoscimento e alla certificazione dei casi di DSA, che sono quindi velocemente aumentati. Negli anni successivi però la situazione è rimasta sostanzialmente invariata: una prima stima del MIUR sui dati dell’anno scolastico 2016/17 parla di meno di 200.000 certificazioni per DSA, corrispondenti di nuovo a una percentuale di poco superiore al 2% della popolazione totale, ben lontana da quelle del 20-30% paventate in modo molto poco attendibile da certi siti.
Se facciamo riferimento al dato citato sulla frequenza attesa di questi disturbi nei soggetti in età evolutiva, tra il 2,5 e il 3,5%, ci accorgiamo che, al contrario, i DSA in Italia sono ancora sotto diagnosticati, riconosciuti tardivamente o confusi con altri disturbi. Mancano all’appello da 50.000 a 100.000 bambini e ragazzi che attualmente non vedono riconosciute le loro difficoltà per quello che sono e che non ricevono gli aiuti a cui avrebbero diritto.
Ma a cosa serve la diagnosi a scuola?
Veniamo qui alla questione che più ci sta a cuore: a che cosa serve che le difficoltà ad apprendere siano prese in carico, oltre che dalla scuola, da specialisti, capaci di valutarle clinicamente e di formulare eventualmente una diagnosi? Non certo per etichettare ogni “diversità” o medicalizzare ogni problematica, ma al contrario, per capire più approfonditamente possibile la natura e la causa delle difficoltà e per accogliere nel miglior modo possibile le differenze e le peculiarità individuali. E’ facile, come accadeva troppo spesso nel passato, pensare che bambini intelligenti, che si rifiutano di leggere, che continuano a fare errori, o che non imparano le tabelline, siano semplicemente bambini svogliati, che non si impegnano, o bambini “non portati” per certe materie: valutare, classificare, diagnosticare serve invece a capire a fondo come sta imparando quello specifico bambino e qual è la natura delle sue difficoltà, per poterlo aiutare con gli strumenti giusti ed evitare, se possibile, che perda le opportunità, fondamentali per la sua crescita, che la scuola potrebbe offrirgli. Valutazioni e diagnosi servono a considerare ogni studente nella sua unicità, e a prendere in considerazione le sue potenzialità e i suoi bisogni specifici e particolari. Un grandissimo educatore del nostro recente passato, Don Lorenzo Milani, diceva che “non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali tra disuguali”: lui si riferiva in particolare alle diseguaglianze di accesso alla lingua e alla cultura che provengono dalle diseguaglianze sociali, ma altrettanto si potrebbe dire di tutte le diseguaglianze di accesso all’apprendimento. Se la scuola vuole essere “giusta” e dare a tutti le “giuste” opportunità di apprendere, deve per prima cosa riconoscere le diversità dei suoi allievi per quello che realmente sono, non per quello che sembrano, e poi attrezzarsi per dare a ciascuno secondo i propri bisogni e le proprie capacità. In questo, difficilissimo, ma importantissimo compito, crediamo che anche le conoscenze che provengono da diagnosi serie e ponderate possano essere di grande utilità.
Dalla diagnosi a una didattica inclusiva
La scuola italiana in verità, è da tempo internazionalmente riconosciuta per la scelta di modelli di integrazione e inclusione piuttosto che di separazione e selezione, almeno a partire dalla legge 517 del 1977 che diede il via all’integrazione scolastica e dalla legge 104 del 1992 che normò le misure di sostegno per gli alunni con disabilità.
In questo direzione, la legge 170 sui DSA costituisce un ulteriore passo avanti verso la personalizzazione dei percorsi didattici, peraltro già avviata nella legge 53/2003, secondo la quale “la definizione e la realizzazione delle strategie didattiche devono sempre tener conto della singolarità e complessità di ogni persona, della sua articolata identità, delle sue aspirazioni e capacità e delle sue fragilità, nelle varie fasi di sviluppo e di formazione”. La didattica personalizzata calibra l’offerta didattica e l’approccio relazionale sulle specificità e unicità dei bisogni educativi degli alunni della classe, favorendo lo sviluppo dei punti di forza di ciascuno. Nel rispetto degli obiettivi generali e specifici di apprendimento, la didattica personalizzata si sostanzia attraverso l’impiego di una varietà di metodologie e strategie didattiche, tali da promuovere le potenzialità e il successo formativo in ogni alunno: l’uso dei mediatori didattici (schemi, mappe concettuali, etc.), l’attenzione agli stili di apprendimento, la calibrazione degli interventi sulla base dei livelli raggiunti, nell’ottica di promuovere un apprendimento significativo.
Questo percorso della scuola italiana viene portato a compimento con le direttive del MIUR sui Bisogni Educativi Speciali: qui si esce definitivamente dall’ottica di riservare a determinate categorie di soggetti i benefici di una didattica personalizzata, riconoscendo che “in ogni classe ci sono alunni che, con continuità o per determinati periodi, possono manifestare bisogni educativi speciali, o per motivi fisici, biologici, fisiologici, o anche per motivi psicologici, sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta… nella prospettiva di una scuola sempre più inclusiva ed accogliente”.
La prospettiva dei Bisogni Educativi Speciali finisce per abbracciare tutte le situazioni di disagio e difficoltà in cui bambini e ragazzi possono venire a trovarsi, in modo temporaneo o continuativo, nella scuola.
Per la definizione di alcune di queste situazioni (Disturbi Evolutivi Specifici, Disturbi dell’Attenzione e iperattività, Funzionamento Intellettivo Limite e Disabilità) è necessaria una diagnosi, cioè un giudizio clinico, che attesta la presenza di una patologia o di un disturbo e che può essere rilasciato da un medico o da uno psicologo (sia del servizio pubblico che privato). Solo per le due situazioni normate da una legge (DSA e disabilità) è necessaria anche la certificazione, cioè un documento con valore legale che attesta il diritto ad avvalersi delle misure previste da precise disposizioni di legge, che deve essere prodotta da strutture pubbliche. Per tutte le altre situazioni, varie e diversificate, di svantaggio socio-economico, linguistico e culturale e di difficoltà anche temporanee, ma significative, dovute a particolari situazioni emotive e relazionali, è la scuola stessa che è chiamata a decidere, sulla base di autonome considerazioni di carattere psicopedagogico, quali misure adottare per personalizzare l’approccio didattico, servendosi liberamente degli strumenti compensativi e delle misure dispensative previste dalla legge 170, ritenuti più adatti.
La logica della personalizzazione si afferma finalmente sia sul piano della concreta azione didattica (che apparteneva già alla pratica degli insegnanti più sensibili e preparati), che sul piano della programmazione collegiale e della documentazione e valutazione degli apprendimenti (che è invece una prospettiva tutta nuova). E’ la piena attuazione dei principi della didattica inclusiva che a nostro parere, costituisce la risposta coerente e logica ai risultati della ricerca sull’apprendimento e sulla natura delle difficoltà che incontrano i nostri bambini a scuola.